Non ci sono esperienze positive nella corsa, ci sono solo quelle negative. Quelle che nonostante tutti i tuoi giuri e spergiuri di non farle più, le rifarai e rifarai ancora:
- La scelta della mutanda sbagliata. Perché non ci sarà bastato magari correre per un’ora e mezza con l’indice della mano destra atta, in continuazione, a “stappare” lo slip dal gluteo facendo finta invece di scacciare una mosca. No, non ci sarà bastato e, per pigrizia nello scegliere dal cassetto quella giusta, continueremo a usarla inventando, per i passanti che ci guardano allibiti: La mosca, la zanzara, uno sciame di moscerini, un’infiammazione, un caccia torpediniere e via così, fino alla bomba atomica nelle natiche.
- L’auricolare non funzionante. Come tutte le cose che speri che si aggiustino da sole anche l’auricolare, quello da corsa, quello che preferisci di più di tutti gli altri, non fa eccezione. Ma sono mesi che a quell’aggeggio non funziona la parte destra, che ogni tanto invece si inverte con quello di sinistra, che poi non funzionano tutti e due, che poi funzionano solo i bassi. Ma, quando per puro miracolo divino, per il tempo di un battito d’ali funzionano contemporaneamente allora dici che sei stata una cretina, e la volta successiva li riusi, illudendoti. Altro giro altra corsa, presto salire che si riparte.
- Fa freddo, fa caldo. Eh sì, è la prima regola che impari. Appena il tuo corpo correndo si scalda un attimo, percepirai dieci gradi in più. Lo sanno tutti, anche i bambini. È inutile quindi partire vestiti da Ambrogio Fogar, in traversata del Polo Nord, per poi accorgerci dopo tre chilometri che ci stiamo sciogliendo come un Calippo nel Sahara. I successivi dieci chilometri saranno rallentati dall’attrito di un doppio giaccone tecnico, tre pile, due passamontagna, ghette d’acciaio, pantaloni con fodera interna di pelle di foca, una slitta e Armaduk mummificato, portati in braccio dopo esserci spogliati di straforo dietro un albero. La volta successiva, magari lasceremo a casa uno dei due passamontagna, ma guai a toglierci tutto il resto, e se poi avessimo freddo?
- La stringa della scarpa. Se facciamo un nodo poi ci si slaccia, ci dobbiamo fermare e ci rovina la performance, manco dovessimo andare alle Olimpiadi. Se facciamo un doppio nodo, poi non riusciamo più a slacciarle e a casa, o impieghiamo per slacciarle lo stesso tempo impiegato a lavare due bagni, riordinare tre stanze, stendere quattro lavatrici oppure le togliamo allacciate rovinando la loro forma, come ci ha detto il venditore di scarpe, ed è un peccato visto quelle che ci sono costate. Quindi la scelta è tra rovinare la performance olimpionica o dare loro la forma della babbuccia da casa. Per par condicio allacceremo una con un nodo e una con il doppio, tutte le volte, pur di non sprecare neanche un minuto a seguirci un tutorial sul web e allacciarle come Dio comanda.
- Il bombardino. Tutti gli amici runner ti consigliano, almeno una volta, di provare la loro pozione magica per correre come il vento o per non crollare per strada come una vecchia sulla saponetta in bagno. Chi ti propone la borraccetta magica, il gel super appiccicoso, lo sciottino da spruzzarsi in bocca, e non nell’occhio ti raccomando. Il beverone alla barbabietola, all’alga spirulina, i semi di chia nell’acqua che si trasformano in una covata di girini, il panino con la mortadella. Addirittura una volta mi hanno passato un mignon al gusto di Vov. Insomma, vuoi non provare tutto questo ben di Dio per noi non ritrovarti al parcheggio di un supermercato, accovacciata dentro uno scatolone che conteneva un frigorifero a restituire, dal basso, a madre natura, quello che avevi immesso dall’alto? Ma tu continuerai a seguire tutti i suggerimenti degli amici, perché loro sì che ne se sanno mica come te che ti porti in giro solo l’acqua.
- Cosa saranno mai venti chilometri. Prima di correre anche due chilometri spaventavano. “Zitto che oggi ho fatto duemila metri per andare in edicola e ora mi butto sul divano che sono morto.” Appena incominciamo invece ad affacciarci al mondo della corsa, diventiamo le persone più spavalde sulla terra. “Ma sì, è vero, per ora riesco solo a fare settecento metri di fila, per due volte, con un recupero di sei minuti sulla panchina del parco, ma tra settecento metri e cinque chilometri di fila, quanto vuoi che sia la differenza?”. Per poi ritrovarci, man mano che aumentiamo il volume della nostra corsa, sempre più lontani da casa e il dover chiamare un familiare per farci venire a prendere, mentre era sdraiato morto sul divano dopo che aveva camminato fino in edicola inventando le scuse più assurde. Ma tutto questo ferma la nostra spavalderia? Dubito.
- La lingua tenuta a freno. Di solito chi corre parla solo di corsa. Parla di corsa nei forum di corsa, nei blog di corsa, nei commenti sotto i video di corsa, con gli amici runner, con i vicini di casa runner e anche con quelli che trova per strada che magari indossano solo un paio di scarpe di corsa, e fino a qui tutto bene. Il problema è che monopolizza qualsiasi discorso, che con la corsa c’entra ben poco, e lo indirizza sulla corsa. Politica, economia, ecologia, impianti idraulici, carburatori, disboscamento, rimedi contro le verruche. Niente, trarrà vantaggio da un “assist” anche se nessuno gliel’ha passato per incominciare, come un disco rotto oramai, a parlare di quanto sia bello far andare le gambe sull’asfalto non rendendosi conto che tutti se ne sono andati. Tutti ci evitano oramai. Ma il mondo è bello perché pieno di gente nuova, e chi siamo noi per non farci passare un assist anche da loro.
- L’abbigliamento . Non abbiamo bisogno di andare in giro vestiti come semafori ubriachi, lo ammetto, anche se il colore fluo dà più visibilità, e non abbiamo neanche bisogno di andare in giro con la maglietta di gare alle quali non solo non abbiamo neanche mai partecipato, e in più acquistato di frodo su internet. “La marathon des sable” quando non siamo mai usciti da Cinisello Balsamo, c’è stata la settimana scorsa e in più siamo bianchi come cadaveri. Oppure quella de “Utra-Trail du Mont Blanc”, quando invece siamo sovrappeso, prendiamo la pillola per la pressione alta e non possiamo salire oltre quota cinquecento che se no ci porta via l’Elisoccorso. Insomma sbaviamo per le cose che non abbiamo raggiunto e daremmo la vita, ma certo non la nostra, per vantarci di cose che non abbiamo fatto. I nostri familiari scuotono la testa, mentre tu contratti di contrabbando una maglietta di una gara che si è svolta in Korea del Sud che, se per puro caso incontri la tua decrepita maestra delle elementari ti schiaffeggia pure perché non sai neanche dove si trova.
- Il pacco gara. Il pacco gara è una reliquia e guai a far toccare il contenuto agli estranei, familiari compresi. Al novanta per cento contiene prodotti orribili che non userai mai. La bottiglietta di acqua di plastica, rigorosamente non riciclabile, al cactus andaluso, spine comprese, che ti idrata sempre se non muori prima conficcato da tutte le spine nello stomaco. Un buono sconto di quattro euro di un centro medico sportivo a trecento chilometri da casa tua. Una coperta termica post-gara che tanto poi la dimentichi sempre a casa e quando finisci ti ricopri con i giornali trovati per terra come un clochard per avere un po’ di calore. Un sacchettino di noci che non apri mai dicendo che ci sarà l’occasione giusta per farlo, che oramai con quelli che non hai mai aperto potresti sfamare tutti gli scoiattoli del parco di Yellowstone. Bambini, ma non si apre niente, non si tocca niente, è tutto mio. E intanto la casa si riempie di sacche di volantini inutili, frutta secca ammuffita, acqua non bevuta. A quando la prossima gara? Ho ancora un po’ di spazio nell’armadio.
- Le spillette. La spilletta tieni pettorale è un bene prezioso, più dell’acqua in gara, più del gel, più delle scarpe, più della gara stessa. E noi ne siamo affezionati, molto affezionati. Ogni tanto apriamo la nostra scatola dei vecchi pettorali per ammirarle e baciarle di nascosto, naturalmente senza farci vedere da nessuno. Come delle vecchie amiche fedeli ci hanno accompagnato, e mai tradito, durante quel breve tratto della nostra vita, dove ci siamo illusi di essere guerrieri, ma non lo siamo mai stati. Ma è stato bello crederci. Per una volta, eravamo solo noi contro il destino, contro il tempo, fregandocene dei pregiudizi. Della nostra pancetta, del nostra postura da orango tanghi mentre corriamo solo sui talloni, ciondolando le braccia come se fossero due corde al vento e tenendo la costa inclinata su di un lato come se avessimo il torcicollo. L’unica consolazione è che se dovessero licenziarci potremmo sempre aprire una piccola merceria, visto la quantità di questi oggetti per casa.
