Ed eccoci al secondo racconto di Socks on the beach
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Ci sono poche cose al mondo che infastidiscono terribilmente il proprietario dell’ombrellone con l’unicorno giallo dai colori stridenti, uno è il disordine e l’altro sono appunto i colori stridenti. L’ombrellone, circondato da multipli di palette, secchielli e ogni attrezzo, superfluo per un adulto ma indispensabile per il divertimento di un bambino, rappresenta quanto di più caotico e disordinato si possa immaginare, e se poi vogliamo aggiungere anche i pessimi abbinamenti cromatici del suddetto ombrellone, al proprietario, ogni volta che si trova in mezzo a co’ tanto scompiglio, sembra di impazzire.
Il signor Tic nasce in una famiglia dove la pattina la faceva da padrone. Una famiglia dove, ogni più piccolo oggetto doveva essere al suo preciso posto, dove niente era collocato a caso, dove appunto l’ordine era all’ordine del giorno. La posizione di ogni cosa era misurata in centimetri, non a occhio, proprio righello alla mano. Il genitore, il maschio Alfa, era intransigente sull’argomento, nessun compromesso, nessuna discussione, nessuna scappatoia.
La genitrice, povera lei, quando il piccolo e tenero Signor Tic, aveva appena compiuto nove anni, un giorno uscì per andare al mercato, come tutti i mercoledì e non fece più ritorno a casa. Snervata dalla condizione e troppo debole per affrontare una ennesima controversia con il consorte, sapendo che avrebbe già perso.
E così il piccolo Signor Tic, al quale non era stato spiegato il motivo dell’abbandono della genitrice, che amava profondamente, fece sua la convinzione che la causa fosse stata il suo disordine cronico, e si convinse che se anche lui fosse diventato una persona fortemente motivata all’ordine, come il padre, la madre sarebbe ritornata.
Qualche tempo dopo, il piccolo Signor Tic, che aveva smesso da un po’ di portare i calzoncini corti, non solo diventò come il padre, ma addirittura ne esasperò l’ossessione ragionando non più in centimetri ma in millimetri.
Diventò, man mano che cresceva, l’incubo di tutte le donne delle pulizie, che si erano addirittura ridotte a fotografare con la Polaroid gli oggetti e a misurare la loro posizione prima di spostarli per spolverare. Non soltanto era allergico allo scompiglio, ma, per non farsi mancare nulla, era diventato intollerante anche ai colori che cromaticamente erano di una tonalità superiore al beige spento. Forse una o due volte nella sua vita, per compiacere una donna al primo appuntamento, aveva accettato di vedere indossato un colore pastello, ma era stato un episodio da classico colpo di testa, che aveva cercato di rimuovere il più in fretta possibile.
Il piccolo Signor Tic quindi, che oramai era diventato un giovane uomo, dopo varie storie sentimentali scartate come una caramella e buttate per terra in segno di disprezzo poiché non avevano superato i suoi test, si era sposato con una donna che aveva ritenuto, finalmente, al suo “livello di ordine” (ignorando che lei lo fosse diventata solo per amore).
Ma dopo poco nacque Lola, e da qui iniziò, per l’amore e non solo, la parabola discendente. Se tollerò, suo malgrado e per qualche tempo, il cambiamento drastico all’interno delle sue quattro mura, terminato il periodo che lui aveva stabilito dovesse essere, non riuscì a farsi una ragione del fatto che casa sua, con una figlia al limite dell’ipercinetico, non avesse più le sembianze di una dimora con stile giapponese minimalista, (quella per cui lui aveva lavorato tanto per far tornare sua madre) ma, di un circo, saltimbanchi e peluche in cattività compresi. L’illusione di un’esistenza senza polvere, compreso l’amore, crollò, come un castello di carte davanti a una finestra triestina lasciata aperta alla mercé della bora.
Dopo cinque anni dalla nascita di Lola, anni che per lui si erano trasformati nell’incubo di uno spettacolo raccapricciante ogni volta che varcava l’ingresso di casa, il piccolo Signor Tic, oramai con i primi fili argento tra i capelli, se ne andò, quasi senza dare spiegazioni. Sua moglie ne capì le ragioni perché conosceva ciò che era accaduto in passato.
Lola quasi non si accorse dell’assenza del padre tanto era abituata ai suoi lunghi viaggi lavorativi e del resto, anche quando era presente, aveva addosso troppa gioia di vivere per ascoltare le sue lunghe e noiose prediche sull’importanza della disposizione frontale dei pupazzi sulla mensola della cameretta.
Ma, come per tutti o quasi i padri separati, la vacanza estiva coi figli era d’obbligo. Lola, vivace fino allo sfinimento, non avrebbe mai e poi mai accettato di andare al mare in un noiosissimo stabilimento balneare, con tutti gli ombrelloni allineati, dove tutto avrebbe avuto un ritmo regolare, dove ogni ora ci sarebbe stata un’attività diversa per i bambini in modo che i genitori si potessero riposare.
No, Lola non era tipo da tutto questo.
Persino Rocco, il venditore di cocco, che conosceva vita morte e miracoli di ogni granello di sabbia presente su quel fazzoletto di spiaggia, come di tutte le altre spiagge adiacenti , reduce da un incontro troppo ravvicinato col Signor Tic, il quale gli aveva contestato l’irregolarità delle fette, la pessima sistemazione della merce sul carrello e persino le macchie sulla canottiera, si era convinto che più sarebbe stato lontano dall’ombrellone con l’unicorno più ne avrebbe tratto vantaggio la sua salute mentale.
E così il piccolo Signor Tic, che nel frattempo non solo era diventato ancora più grande, ma anche marito e padre, e poi divorziato, quindi di nuovo single senza troppe aspettative per il suo futuro sentimentale, si ritrova, suo malgrado e piangendo dentro, circondato da tanto tanto disordine e, come avevamo detto, da insopportabili colori stridenti.
Eppure sarebbe bastato così poco per farlo ritornare sereno come quando era bambino. Il problema era capire cosa fosse quel “così poco”.