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Socks on the beach – Il Signor Tic con figlia a carico (l’ombrellone con gli unicorni)

19 Gen

Ed eccoci al secondo racconto di Socks on the beach

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Ci sono poche cose al mondo che infastidiscono terribilmente il proprietario dell’ombrellone con l’unicorno giallo dai colori stridenti, uno è il disordine e l’altro sono appunto i colori stridenti. L’ombrellone, circondato da multipli di palette, secchielli e ogni attrezzo, superfluo per un adulto ma indispensabile per il divertimento di un bambino, rappresenta quanto di più caotico e disordinato si possa immaginare, e se poi vogliamo aggiungere anche i pessimi abbinamenti cromatici del suddetto ombrellone, al proprietario, ogni volta che si trova in mezzo a co’ tanto scompiglio, sembra di impazzire.

    Il signor Tic nasce in una famiglia dove la pattina la faceva da padrone. Una famiglia dove, ogni più piccolo oggetto doveva essere al suo preciso posto, dove niente era collocato a caso, dove appunto l’ordine era all’ordine del giorno. La posizione di ogni cosa era misurata in centimetri, non a occhio, proprio righello alla mano. Il genitore, il maschio Alfa, era intransigente sull’argomento, nessun compromesso, nessuna discussione, nessuna scappatoia.

    La genitrice, povera lei, quando il piccolo e tenero Signor Tic, aveva appena compiuto nove anni, un giorno uscì per andare al mercato, come tutti i mercoledì e non fece più ritorno a casa. Snervata dalla condizione e troppo debole per affrontare una ennesima controversia con il consorte, sapendo che avrebbe già perso.

    E così il piccolo Signor Tic, al quale non era stato spiegato il motivo dell’abbandono della genitrice, che amava profondamente, fece sua la convinzione che la causa fosse stata il suo disordine cronico, e si convinse che se anche lui fosse diventato una persona fortemente motivata all’ordine, come il padre, la madre sarebbe ritornata.

    Qualche tempo dopo, il piccolo Signor Tic, che aveva smesso da un po’ di portare i calzoncini corti, non solo diventò come il padre, ma addirittura ne esasperò l’ossessione ragionando non più in centimetri ma in          millimetri.

    Diventò, man mano che cresceva, l’incubo di tutte le donne delle pulizie, che si erano addirittura ridotte a fotografare con la Polaroid gli oggetti e a misurare la loro posizione prima di spostarli per spolverare.     Non soltanto era allergico allo scompiglio, ma, per non farsi mancare nulla, era diventato intollerante anche ai colori che cromaticamente erano di una tonalità superiore al beige spento. Forse una o due volte nella sua vita, per compiacere una donna al primo appuntamento, aveva accettato di vedere indossato un colore pastello, ma era stato un episodio da classico colpo di testa, che aveva cercato di rimuovere il più in fretta possibile.

    Il piccolo Signor Tic quindi, che oramai era diventato un giovane uomo, dopo varie storie sentimentali scartate come una caramella e buttate per terra in segno di disprezzo poiché non avevano superato i suoi test, si era sposato con una donna che aveva ritenuto, finalmente, al suo “livello di ordine” (ignorando che lei lo fosse diventata solo per amore).

    Ma dopo poco nacque Lola, e da qui iniziò, per l’amore e non solo, la parabola discendente. Se tollerò, suo malgrado e per qualche tempo, il cambiamento drastico all’interno delle sue quattro mura, terminato il periodo che lui aveva stabilito dovesse essere, non riuscì a farsi una ragione del fatto che casa sua, con una figlia al limite dell’ipercinetico, non avesse più le sembianze di una dimora con stile giapponese minimalista, (quella per cui lui aveva lavorato tanto per far tornare sua madre) ma, di un circo, saltimbanchi e peluche in cattività compresi.     L’illusione di un’esistenza senza polvere, compreso l’amore, crollò, come un castello di carte davanti a una finestra triestina lasciata aperta alla mercé della bora.

    Dopo cinque anni dalla nascita di Lola, anni che per lui si erano trasformati nell’incubo di uno spettacolo raccapricciante ogni volta che varcava l’ingresso di casa, il piccolo Signor Tic, oramai con i primi fili argento tra i capelli, se ne andò, quasi senza dare spiegazioni.     Sua moglie ne capì le ragioni perché conosceva ciò che era accaduto in passato.

    Lola quasi non si accorse dell’assenza del padre tanto era abituata ai suoi lunghi viaggi lavorativi e del resto, anche quando era presente, aveva addosso troppa gioia di vivere per ascoltare le sue lunghe e noiose prediche sull’importanza della disposizione frontale dei pupazzi sulla mensola della cameretta.

    Ma, come per tutti o quasi i padri separati, la vacanza estiva coi figli era d’obbligo. Lola, vivace fino allo sfinimento, non avrebbe mai e poi mai accettato di andare al mare in un noiosissimo stabilimento balneare, con tutti gli ombrelloni allineati, dove tutto avrebbe avuto un ritmo regolare, dove ogni ora ci sarebbe stata un’attività diversa per i bambini in modo che i genitori si potessero riposare.

No, Lola non era tipo da tutto questo.

Persino Rocco, il venditore di cocco, che conosceva vita morte e miracoli di ogni granello di sabbia presente su quel fazzoletto di spiaggia, come di tutte le altre spiagge adiacenti , reduce da un incontro troppo ravvicinato col Signor Tic, il quale gli aveva contestato l’irregolarità delle fette, la pessima sistemazione della merce sul carrello e persino le macchie sulla canottiera, si era convinto che più sarebbe stato lontano dall’ombrellone con l’unicorno più ne avrebbe tratto vantaggio la sua salute mentale.

E così il piccolo Signor Tic, che nel frattempo non solo era diventato ancora più grande, ma anche marito e padre, e poi divorziato, quindi di nuovo single senza troppe aspettative per il suo futuro sentimentale, si ritrova, suo malgrado e piangendo dentro, circondato da tanto tanto disordine e, come avevamo detto, da insopportabili colori stridenti.

    Eppure sarebbe bastato così poco per farlo ritornare sereno come quando era bambino. Il problema era capire cosa fosse quel “così poco”.

Socks on the beach – I coniugi Felicetti (l’ombrellone rosa a uncinetto)                                   

18 Gen

Ed eccoci alla prima storia. La prefazione è il post prima

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I proprietari di questo ombrellone sono i coniugi Felicetti.

“In nomen omen” mi sembra in assoluto la locuzione meno appropriata per definire questa coppia.

Armando e Teresa, sono coniugi di vecchia data che, nonostante il cognome, pare abbiano coniato loro il termine “mugugno” (quello genovese). Quello che nasci col broncio, muori col broncio e in mezzo c’è, sempre e solo, il broncio.  

Quelli che, non per problemi anatomici ma semplicemente legati alla personalità, non riescono a esprimere il sentimento più naturale del mondo, il sorriso.

Quell’espressione, per loro, pare vada bene su tutto, come il tubino nero. Ai funerali, ai matrimoni, nei momenti di festa e persino in quelli più tragici. Una famiglia coerente insomma, una famiglia ininfluenzabile dagli eventi, per meglio dirla.

I coniugi Felicetti, non solo hanno il mugugno costante, un difetto per carità lo si perdona a tutti, ma sono anche ipocondriaci. Non parchi del loro borbottio costante, quasi come se fosse un vanto, collezionano vizi e fobie come se rientrassero nella normalità. L’ipocondria la fa da padrone.

Passano dall’uso quotidiano di spray maleodoranti per disinfettare la spiaggia, all’utilizzo di creme a protezione totale pur rimanendo costantemente sotto l’ombrellone, finendo con l’alimentarsi di cibo ospedaliero, perché la salute parte dall’alimentazione, il tutto conservato dentro thermos simili a matrioske, dove il rito dell’apertura diventa più ipnotizzante, per gli sbigottiti vicini, di quello del tè giapponese.

Il loro kit del pronto soccorso, inoltre, farebbe invidia al centro medico più avanzato: chilometri di bende e cerotti, creme per ustioni da meduse tropicali, unguenti da post stritolamento causato da piovra gigante e tante altre baggianate che farebbero anche ridere se almeno la valigetta del Signor Felicetti non pesasse diciassette chili e non dovesse caricarsela in spalla, come una guida sherpa, due volte al giorno.

Parlano coi vicini solo se strettamente necessario, ma di questo non c’è da stupirsi, e guardano con sospetto chi occupi quella spiaggia da meno di dieci anni. Fino all’anno scorso almeno scambiavano due parole con una coppia anziana, poi la coppia non è più venuta, chissà perché.

Persino Rocco, il venditore di cocco, che bazzica da anni quel litorale, li evita come la peste, sapendo già che, pur riuscendo, per assurdo, a vendere una fettina persino agli altri venditori ambulanti dello stesso prodotto, con i coniugi Felicetti non ci sarebbe trippa per gatti.

I coniugi Felicetti sembrano simili se non identici, ma, non lo sono.

Lei, Teresa, è abitudinaria, completamente abitudinaria. Non tollera la minima variazione al programma giornaliero, settimanale, annuale e non esagereremmo se ci includessimo pure il decennale.

Non abbandona un attimo il suo uncinetto, se non per pranzo, ma subito dopo, forse sentendosi in colpa, raddoppia la velocità dell’esecuzione. Punto incrociato, punto ventaglio, punto buccia di limone. E via così tutta la giornata.

Non c’è oggetto di casa che non sia stato, almeno parzialmente, ricoperto dai suoi lavoretti: centri, centrini, tovaglie, tende, sottopiatti, copri water, e in spiaggia non è stata da meno.  Ha foderato l’ombrellone e il suo tubo, le due sdraio, la valigetta del pronto soccorso, i portavivande e persino, anche se contro la volontà del coniuge, la visiera del cappello al marito.

Lui, per osmosi, per amore, ma si sospetta anche per sfinimento, ha accettato il suo carattere, malfidente tignoso e asociale, ed è diventato come lei. Ma lui, il signor “faccio sempre le stesse cose”, ha un sogno.

Completamente ipnotizzato dai racconti di mare del suo maestro elementare e dalla, quindi, neonata passione in terza B, che alimentò divorando in biblioteca tutti i libri sull’argomento per anni e anni, ormai diventato uomo, prese una drastica decisione.

Salutò i genitori, gli zii, i nonni e i cugini ed emigrò verso valle, e poi sempre più a sud, in cerca del suo grande amore, il mare. Primo della famiglia a essere sceso sotto i duemila metri di quota non per mera necessità.

Abbandonò un futuro di pastorizia, di guance screpolate dal freddo e arrampicate in montagna, unico passatempo della famiglia tramandato da generazione in generazione, immaginandosi già avventuriero tra velieri, tra cavalloni alti venti metri e di terre inesplorate, come raccontavano i suoi libri d’infanzia.

Ma lui, il Signor Armando Felicetti, quasi novello Cristoforo Colombo, non aveva fatto ancora i conti col destino.

Ancora prima di scendere dal treno, a venticinque anni, si era già innamorato della sua compagna di scompartimento, piccola, carina, di poche parole, con l’occhio scrutatore e bislacche manie che già avrebbero dovuto destar sospetto, ma si sa, l’amore acceca.

Si sposarono praticamente subito, e in tutti quegli anni insieme lui cedette alle manie della moglie mandando a monte tutti i suoi progetti compresi di “ vento in poppa, cazza la randa, terra in vista”, e tutte quel bizzarro linguaggio marinaresco che conosceva a memoria, nodi compresi.

Ma abbandonò tutti i suoi sogni tranne uno, che forse a questo punto piatto della sua vita potrebbe essere additato come un “capriccio”: il poter vedere almeno una volta un tramonto sul mare mano nella mano con la donna che ama, cosa che lui non le ha mai chiesto per timidezza in quarantacinque anni di matrimonio, e anche perché, alle 18.26 cascasse il mondo,  lei ha sempre imposto di risalire in casa dalla spiaggia o da dovunque fossero, per cucinare per la cena.

Tutti i giorni, da quasi mezzo secolo a questa parte, il Signor Felicetti alle 18.25 fissa la lancetta lunga dell’orologio, quella dei minuti per intenderci, sperando che quella maledetta non faccia, almeno per una volta, il suo dovere.

Tic tac tic tac.

“Sono le 18.26 caro andiamo su se no non facciamo in tempo per la cena.” “Si cara, vengo.” Tic tac tic tac.

Nel dubbio chiama il 1522

24 Nov

Sfiorami.
Sfiorami i capelli, il viso, le mani, come facevi una volta.
Sfiorami come se fossi vento, vento primaverile, quello che ti entra nei capelli facendoti sentire viva. Quello tiepido, mentre ancora indossiamo i nostri cappotti invernali.


Sfiorami e rimandami indietro di quarant’anni, quando mi immedesimavo nelle bambine di Holly Hobbie. Quelle dai buffi e gonfi cappelli, con quella delicatezza e serenità che noi bambine sognavamo. Io me le ricordo,  guardavano un punto lontano e forse si immaginavano il loro futuro.
Anche io, quando indossavo i loro panni, me lo immaginavo. Fatto di dolcezza, di gentilezza nei miei confronti, di aiuto al più debole. Di comprensione verso gli altri, del resistere per le buone cause.


Ma poi cosa è successo? I buoni propositi sono rimasti ma la realtà è stata diversa. Colpa mia? Colpa tua? Non lo so. Ha ancora senso capirlo a questo punto ? So solo che mi tengo un pacco di ghiaccio sulla guancia, mentre raccolgo da terra gli ennesimi cocci rotti, ancora una volta, sperando di non tagliarmi. I pezzi rotti di me stessa invece non tagliano ma mi sembra impossibile rimetterli a posto.


Sfiorami.
Sfiorami I capelli, il viso e le mani come facevi una volta. Anzi no.


Non sono più la bambina con le trecce e l’abito fiorato. E non sono più quella di un minuto fa, quella che poi alla fine è stata lei, come al solito, la più “insolente”, a tuo dire, e che  quindi ha colpa. Mi hai detto mille volte che da sola là fuori non ce la farò, non sono nessuno, non valgo niente. Queste parole oramai mi si sono tatuate sulla pelle, nella mente, sarà difficile cancellarle. Ma tu ignori la mia forza, quella di chi mi vuole bene e mi conosce ma soprattutto di chi mi vuole bene ancora senza conoscermi. Ignori tutto questo. Non sono più io quella che sarà sola, lo sarai tu. Sarà difficile, forse impossibile. Chi mi tutelerà da te? Ora sogno solo un futuro dove tu, voi capirete che non siamo di nessuno, se non di noi stesse.


Non sfiorarmi.
Non sfiorarmi più i capelli, il viso e le mani come facevi una volta.
Non lo voglio più.


Nel dubbio chiama il 1522.

Nono giorno in campeggio – la promessa

20 Ago

Venite già mangiati adolescenti.

Venite già in vacanza con lo stomaco pieno al ristorante, specie perché costa tutto il triplo. Specie perché ogni volta a voi interessa la quantità e non sempre la qualità. Specie perché non potete sempre “sbancare” la cucina come si sbanca il banco al Casinò. Specie perché con lo stomaco pieno che non riuscite neanche più a stare seduti sulla sedia, il bottone del pantalone che salta, le lacrime agli occhi dal cibo che vi esce anche dalle orecchie, ecco mentre ruminate il secondo mi chiedete cosa c’è come dolce anche se non ce la fate più.

Domani si parte. Non so come sarà quest’anno ragazzi, devo essere sincera. Per alcune cose forse meglio, per altre forse peggio, si cresce, si cambia. Il mondo si trasforma, noi pure. Non è facile, non lo è per nessuno credetemi.

Parlate poco, urlate tanto. Alcune volte vi avvicinate e mi baciate tutto il braccio come Gomez a Morticia e io rido e mi sciolgo. Altre volte quel braccio me lo stringete con forza e con rabbia, con insulti e con malessere, e io vi parlo e vi spiego, ma voi non volete sentire, non volete spiegazioni, lo so. Ma io vi parlo lo stesso anche se voi fate finta di non sentirmi. Magari mi odiate in quel momento, vorreste scaraventarmi tutto il possibile addosso. Però sotto sotto mi sentite e le mie parole non entrano da una parte ed escono dall’altra. Quelle parole, anche se ora non lo sapete sono preziose. Si annidano sotto la pelle, dentro di voi, vicino al cuore. Al momento opportuno, quando più vi serviranno vi entreranno dentro al cuore, e allora tutto vi diventerà più chiaro. Il rancore, la rabbia, il disagio e le frustrazioni si calmeranno. La tempesta si calmerà, ve lo prometto. È l’unica promessa che posso farvi per ora, solo questa.

Sesto giorno in campeggio – il mondo fuori di noi

17 Ago

Cosa spieghi ai figli, specie quando sono in vacanza, di quello che sta succedendo in giro per il mondo quando scazzano per qualsiasi cosa?

Quando stanno lì a guardarsi quanto costi la pizza che ha appena preso il fratello per poi fare la differenza con quella che hanno preso loro e poi vantare un credito per prendersi qualcos’altro?

Quando al super del campeggio, dico loro, al reparto dei biscotti olandesi (quelli grassi e pieno di zuccheri) di prendersi una confezione di quello che vogliono per colazione, ma che sia una sola confezione. E poi stanno lì a guardarsi chi abbia più biscotti nella confezione e arrabbiarsi. “Ecco mamma, lui ne ha di più!” – “Ma se potevi sceglierti quello che volevi?” – “Si però…” – “Ma si però cosa?”

Quando in spiaggia, in piscina, in giro, in battello, in bici, in canoa, al ristorante, nel bungalow, in mezzo al lago, a visitare un castello, a goderci il tramonto sugli scogli, a fare una passeggiata, a mangiarci un gelato, a commentare la famiglia di paperelle che ci passano intorno mentre nuotiamo al lago, ecco sempre, sempre, “sì, ma io volevo andare da un’altra parte”

“Ragazzi guardatemi”, mentre in pizzeria sta imperversando un nubifragio e da fuori, anche se eravamo sotto un tendone, ci hanno fatto volare dentro “oltre i vostri problemi fuori ce ne sono molto più gravi, alcuni possono essere risolti, altri no, altri si modificano in peggio o magari in meglio. Avete visto il cielo prima mentre pioveva? Andiamo fuori a guardarlo ora, Shhh, silenzio, non dite nulla, per una volta. Guardiamoci questo spettacolo in silenzio. Anche il silenzio delle volte parla, non sottovalutatelo mai”

Terzo giorno in campeggio – le cozze

14 Ago

Bisognerebbe imparare dalle anatre a fare i genitori, ho capito dopo tre giorni qui. La madre, o il padre davanti, gli altri in fila dietro senza proferire parola. Poi i piccoli incuriositi escono dall’acqua e ti vengono vicino a cercare cibo. La madre, o il padre rimangono a distanza. Guardano un po’ allarmati e un po’ incuriositi ma non intervengono. I loro cuccioli un giorno diventeranno grandi e quindi, a maggior ragione, devo imparare già da piccoli a potersi muovere liberamente nello spazio senza avere i genitori apprensivi che gli urlano “corri ma non sudare”. Poi alla fine la mamma, o il papà, anatra starnazza, perché anche i genitori anatre dopo un po’ si rompono i coglioni, i piccoli ritornano in fila, e si continua il viaggio.

Ieri guardavo questi bambini di cinque anni, olandesi ça va sans dire, che scivolavano ripetutamente su pietre piene di alghe. Una volta battevano la testa, toc. Una volta battevano l’anca, toc. Una volta battevano il gomito e il ginocchio, toc toc. E loro non facevano un plissè. E i genitori non facevano un plissè.

Io non ho partorito anatre, ne tanto meno bambini olandesi, ho partorito due cozze.

Primo giorno in campeggio – c’è vita dopo le 22.30?

12 Ago

Se per una volta non si fa il viaggio della speranza per arrivare in villeggiatura (non penso che dopo Camillo Benso Conte di Cavour qualcuno abbia più usato questo termine) lo scotto che abbiamo dovuto pagare è stato quello di rimanere in fila quaranta minuti per la registrazione, in mezzo a una mandria di olandesi che avevano da ridire su tutto. L’olandese si sa è puntiglioso fino allo sfinimento. E se per puro caso nel loro soggiorno era compreso un simpatico gadget, che può essere anche semplicemente un’orribile penna che vale meno delle azioni della Canistracci oil, state certi che loro rimarranno davanti alla reception, dandosi magari il cambio con gli altri parenti, fino a che quelle povere signorine in divisa, stremate dal caldo e dal dover saper parlare quattro lingue contemporaneamente e naturalmente sottopagate, non troveranno dopo ore di ricerca in uno scantinato la famosa penna, impolverata e con la scritta oramai scolorita. E con la pazienza che neanche Padre Pio, consegneranno l’omaggio con lo stesso sorriso tirato di una sincronette del nuoto sincronizzato e lo sguardo di Linda Blair. La sera arriva, il frigo del bungalow è vuoto. Ci avviamo verso il ristorante. Guarda mamma gli orari di apertura, dalle 19.30 alle 22.30, ma chi viene a mangiare alle 22.30 che a quell’ora già tutti dormono. Un giorno anche loro scopriranno che c’è vita dopo quell’ora.

5/30 – Milo

9 Ott

Sembra ieri che sei nato e invece hai già cinque giorni. Ecco un nuovo racconto, con il contributo fotografico di @SfigataMente, per il progetto #sedottaeabbandonata (30 racconti in 30 giorni con le vostre foto di oggetti abbandonati per strada).

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-Milo muoviti se no facciamo tardi come tutte le mattine.

Milo ha quattro anni e sa già chiaramente cosa vuole fare da grande. Guardare fuori tutto il giorno dalla finestra per vedere il succedersi delle stagioni. Però solo da grande, mi raccomando, ora ha ancora cose da fare. Ha gli occhi di suo padre, azzurro cielo, con qualche nuvoletta qua e là, come dice lui. Il temperamento di un cavallo selvaggio a un rodeo americano quando cerchi di cavalcarlo, ma anche quelle tipiche manine cicciotte da infante che ti verrebbe voglia di sbaciucchiarle in continuazione, ed è proprio grazie a queste che riesco a perdonargli molte cose.

Mi chiamo Brianna sono olandese. Ho conosciuto Tobia dieci anni fa in un campeggio sul Lago di Garda, dove venivo da qualche anno con le mie amiche anche per esercitare il mio italiano, visto che lo studiavo a scuola. È bastato veramente solo uno sguardo, e in più di sfuggita, per accorgerci che eravamo le due famose mezze mele. Magari lui una granny smith. Tirato a lucido, croccante e aspro da impazzire. Io una “Bella di Boskoop”, una mela delle mie parti, rustica, soda e fortunatamente asprigna solo a tratti. Due pazzi. Una storia “violenta”. Fatta di fame dell’uno verso l’altro, ma non solo fisica, anche mentale, soprattutto mentale. Venivo fuori da un’infanzia molto difficile, avevo bisogno di protezione e leggerezza e lui, beh, me l’ha servita su un piatto d’argento. Ancora oggi, quando ho bisogno un attimo di staccarmi dal mondo mi aggrappo al suo avambraccio destro, quello spazio tra il suo orologio cromato e la manica della camicia rimboccata, e rimango lì, in sospeso. Come se fosse una bombola di ossigeno a ottomila metri di altitudine.

 Io dieci anni fa dovevo finire ancora l’Università, mentre lui lavorava già nella Marina Militare italiana. Già con una storia a distanza ci si vedeva poco, e sommando questo anche al suo lavoro ci si vedeva veramente di rado. Spesso era via, e non mi poteva dire dove fosse e cosa stesse facendo. Ma sei su una nave? Silenzio. Su di un sommergibile? Silenzio. Barca a vela? Silenzio. Gozzo? Silenzio. Cazzo, ma almeno si mangia bene? Peggio che in Olanda! E giù a ridere. Queste erano il massimo delle conversazioni telefoniche deliranti tra me e lui quando ci separava un gran bel pezzo di terra ma ancora di più un gran bel pezzo di mare.

Milo ha quattro anni, quasi cinque oramai. Aspetta sempre il suo papà con ansia. Dopo un’ora che è partito mi chiede già quando torni. Un po’ come quando dopo dieci minuti che hai messo la macchina in moto i bimbi dietro chiedono quando si arrivi. Milo si veste all’olandese e ne sono molto felice. Penso lo abbia imparato dai suoi cuginetti che vede almeno sei volte all’anno da quando è nato. Mischia capi invernali con quelli estivi. Righe, con quadretti, con pois, con disegni di razzi e pianeti. Nero, oro, viola, verde marcio, giallo fluo e rosso fuoco, tutto insieme. Sandali con calzettoni d’inverno e stivali di gomma, solo rossi mamma mi raccomando, il resto dell’anno, a meno che non debba fare ginnastica. Io gli lascio fare tutto ciò, anche se ha gusti discutibili la maggior parte delle volte. Ma chi sono io per togliergli questi piaceri. Sono solo sua madre, ma non mi appartiene. Ogni individuo appartiene solo a se stesso.

Finalmente siamo quasi all’asilo, manca poco. Tengo la mano di Milo mentre cammina sul muretto. Mi vibra il telefono in borsa. Guardo il display. Sorrido dentro, mi esplode il cuore. Rimetto il telefono in borsa.

Parte un fischio dietro di noi un attimo dopo. È il nostro fischio, quello della famiglia. Io e Milo ci giriamo all’unisono, a rallenty. Le mie lacrime spazzate via dal vento provocato dai miei capelli. Milo con gli occhi azzurro cielo, con qualche nuvoletta qua e là, che brillano come stelle. Si tuffa dal muretto nelle braccia del padre, che lo innalza al cielo come se fosse il piccolo Simba.

-Papà, papà, ho perso lo stivale. Rimettimelo in fretta che devo andare all’asilo a fare un sacco di cose prima di diventare grande.

Lo salutiamo al cancello. E io mi attacco al suo avambraccio. Per la precisione in quello spazio tra l’orologio cromato e la manica rimboccata. Dove ogni volta che voglio tornare a respirare so che ci posso andare, dove mi sento finalmente a casa.

Decimo giorno di vacanza al mare – il giorno prima della partenza

25 Ago

E così di solito la vacanza finisce quando si sgonfiano i materassini, che forse fai prima a gonfiarli a bocca che a sgonfiarli. Schiaccia di qua, apri la valvola, schiaccia di là, “tieni la valvola aperta, non vedi che non si sgonfia?”. Ti rimane alla fine un po’ di malinconia e un sacco di plastica morto in mano, che non vuole sgonfiarsi del tutto, pieno di sabbia, anche se lo hai già sciacquata venti volte. Sabbia che comunque ti porteresti lo stesso a casa con gli abiti nel sacco delle cose da lavare, nelle scarpe, nei capelli nonostante i lavaggi ma specie tra le chiappe. Lì, nostro malgrado, è come se avessimo risucchiato dal culo un’intera sabbiera per bambini, palette e secchielli esclusi, che poi funziona a lento rilascio, come una clessidra che dura un’eternità.

Ci siamo trovati bene, nonostante la nostra quarta volta, di cui l’ultima undici anni fa? Mah. È brutto da dire ma i francesi li ho sopportati poco quest’anno.

Non ho sopportato le loro false certezze, la loro lentezza nel servire perché hanno i loro tempi e i loro rituali.

Non ho sopportato il loro pensare di essere in grado di farti un cappuccino, specie se a quasi quattro euro, porca troia. (E che del prezzo me ne sono accorta dopo).

Non ho sopportato le fighe di legno che ti accompagnano al tavolo ma poi non sanno gestirti.

Non ho sopportato che quando gli parli in francese loro ti rispondano in italiano e viceversa.

Non ho sopportato che quando corro io li saluti tutti e loro neanche un peto di contraccambio.

Non ho sopportato che io debba litigare con un ristoratore perché ai miei figli scappa urgentemente, i bagni pubblici sono chiusi, chiedo cortesemente di fargli usare il loro, e lui mi risponde che se i bagni pubblici sono chiusi non è certo un suo problema. (Solo perché non cenavamo da lui, pezzo di merda).

Non ho sopportato la varietà di infima qualità del cibo dei supermercati. Tutto nel banco frigo, già preparato, cibi con abbinamenti improponibili, tutto con olio di colza, panna, emmental presso fuso sopra e via andare, anzi via ingrassare.

Non ho sopportato l’aggiunta di “à l’italien” sulle lavagnette fuori dai ristoranti associato a cibi che a noi non verrebbero neanche serviti ai cani.

Non ho sopportato che non siamo riusciti una gestire neanche una giornata intera una serenamente. Questo è quello che mi è dispiaciuto di più. (Avrei ingoiato un vasetto intero di olio colza per averla, anche solo per una volta)

Per intenderci, noi non siamo i tipici italiani che viaggiano all’estero con la caffettiera, perché solo noi siamo capaci, ma deve pur esserci una via di mezzo tra il Sassicaia e il Tavernello.

Che cosa ho amato:

I miei figli e il marito quando si stava bene, ma anche quando si stava male, diciamocelo.

Il correre all’alba sulla spiaggia, senza musica nelle orecchie.

Gli scherzi che ci facevano i figli e le mille cose che amavano raccontarci.

Gli aperitivi comprati al supermarket da gustarci davanti al tramonto.

La baguette appena sfornata con burro e marmellata per colazione.

Domani si trasferisce tutto il contenuto del bungalow nella macchina alla sanfasò perché alle 9.30 verranno a ispezionare i locali. Me li immagino già con i guanti bianchi a passare sopra gli armadi, chissà se si accorgeranno che, solo per loro, avrò lavato la cucina con lo stesso straccetto del bagno.

Alle 21 si ripartirà poi da Bastia. Ma questa volta senza prendere in giro i passeggeri che si fanno il picnic sul ponte della nave portandosi le cose da casa. Piuttosto che pagare ancora un occhio per la merda che servono arriveremo piuttosto come Totò e Peppino, con i salami appesi al collo e la gallina in gabbia, pronti alla salita a Milano.

È inutile continuare a raccontare.

Siamo una famiglia gambero. Ogni passo avanti ne facciamo due indietro. Non è sempre facile vivere così, ma piano piano, probabilmente abbiamo tempi diversi dagli altri, impareremo anche noi a essere un po’ più sereni e avere come uniche rughe d’espressione quelle del sorriso.

Nono giorno di vacanza al mare – “e la Madonna”

24 Ago

Non ho capito perché l’Italia non abbia ancora ritirato il nostro Ambasciatore in Francia visto la presenza di olio di colza servito in ogni piatto, olio che da noi non viene neanche più usato come combustile per non rovinare i motori.

Sorvolerò invece sul fatto che dopo aver ordinato due croque monsieur stasera per i ragazzi, e nell’attesa del succulento piatto aver loro raccontato della sua bontà e di come, anche se in anni diversi, io e il consorte ce lo sgranocchiavamo lungo la Senna, siano invece arrivati due insipidi panini presso fusi di cotto e cheddar. Non mi sono lamentata perché non avevo più voglia di arrabbiarmi, perchè avevamo passato un bel pomeriggio insieme, e perché avevo già urlato un bel ” siete due teste di cazzo” a due francesi in piscina, quindi ero già a posto così.

Come avevamo iniziato con l’aperitivo sulla spiaggia comprato tra gli scaffali del super U, così finiamo la vacanza sempre sulla spiaggia scambiandoci patatine dalle marche improbabili accompagnate da salse che lo sono ancora di più, fa tutto orribilmente schifo ma non importa.

Il 25 si riparte ma forse si prevedono ancora temporali dopo quelle devastante di questa notte e il nostro rituale non volevamo certo saltarlo per colpa di due nuvole nere.

Mi viente in mente che come quando ero incinta vedevo tutte donne incinte, ora che il nome della Madonna è stata molto gettonata e poi inflazionata, non la si può che veder apparire dappertutto. Forse che voglia inviarci un segnale? Che ora ve la faccio vedere io, altro che Madonna e Madonna

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